Verbale autovelox può essere annullato se non viene indicato se la postazione è fissa o mobile

In questo articolo affronteremo un problema comune per molti guidatori: la temuta multa per eccesso di velocità.

Ogni anno, sono centinaia,  gli automobilisti che si vedono recapitare  a casa un verbale per eccesso di velocità. A volte totalmente ignari delle insidie e difformità che il verbale contiene, per non incorrere in sanzioni ulteriori, decidono di pagare la multa senza impugnarla.

In molti casi però, il verbale è da considerarsi errato e  quindi    l’automobilista, seppur ha commesso l’infrazione, non è tenuto a pagare alcunché, come pure non è soggetto alla tanto temuta decurtazione dei punti della patente.

Come detto in precedenza, sono tanti i casi in cui l’automobilista, rivolgendosi al proprio legale di fiducia, può ottenere l’annullamento della sanzione; tra i più comuni vi rientrano:

  1. mancata segnalazione della postazione autovelox
  2. mancato rispetto della segnaletica autovelox
  3. mancata taratura apparecchio autovelox
  4.  notifica verbale oltre i 90 giorni

Questi sono gli esempi più comuni, mentre da ultimo è stata elaborata una ulteriore causa:

Posto che la postazione autovelox sia essa fissa o mobile, deve in ogni caso essere preventivamente segnalata, nel verbale deve necessariamente essere indicata la tipologia della postazione che ha rilevato l’eccesso di velocità.

Quindi, quando viene notificato un verbale è importante controllare, tra le altre cause, che sia riportata la tipologia di autovelox utilizzata. Si può così verificare, come imposto dal codice della strada, se lo stesso sia adeguatamente segnalato attraverso l’idonea cartellonistica.

Infatti, l’art 142, comma 6-bis afferma che “le postazioni di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all’impiego di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi, conformemente alle norme stabilite nel regolamento di esecuzione del presente codice.”

Va in ogni caso specificato che per Giurisprudenza costante (vedi Cass. n . 680/2011), in tema di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada mediante apparecchio autovelox, nel verbale, la mancata  indicazione dell’apposizione della segnaletica, non è di per se causa di nullità, sempre che non ne sia accertata o ammessa l’esistenza. L’onere di dare tale prova, incombe sull’amministrazione che resiste in giudizio.

Se ne deduce che nel verbale di contestazione per violazione del codice della strada mediate apparecchio autovelox, non è necessario che sia indicata la presenza della segnalazione preventiva in merito alla presenza della postazione fissa o mobile ma, in ogni caso, l’amministrazione dovrà provarne  l’esistenza.

Ciò è fondamentale affinché il giudice possa verificare la corretta sistemazione della cartellonistica e quindi anche rispetto dell’adeguata distanza distanza tra i cartelli e l’ autovelox, così come imposto dal codice della strada.

In sostanza, se nel verbale non viene riportato il tipo di autovelox postazione fissa o autovelox postazione mobile, non sarà in concreto possibile accertare la corretta apposizione dei cartelli che lo segnalano, con tutte le conseguenze del caso.

Quindi se nel verbale manca l’attestazione circa il carattere temporaneo o permanente del dispositivo autovelox, potrebbe anche mancare la dichiarazione relativa all’effettiva predisposizione della segnaletica che informa l’automobilista della collocazione del misuratore autovelox.

Ma perché è così importante che nel verbale sia indicato il carattere temporaneo o permanente dell’autovelox? La risposta in questo caso è molto semplice: il trasgressore è così in grado di valutare la legittimità dell’accertamento rispetto agli adempimenti regolamentari (rispetto della segnaletica preventiva).

In conclusione, non appena si riceve la notifica di un verbale per eccesso di velocità, è opportuno contattare un avvocato così da valutare se vi sono i presupposti per poterlo impugnare e eventualmente ottenere l’annullamento dello stesso.

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Separazione giudiziale addebito in caso di tradimento, presupposti e conseguenze

addebito separazione giudiziale dei coniugi

Spesso, in ambito di separazione, ci si chiede se e quali siano le ipotesi per richiedere l’addebito al coniuge che ha, in costanza di matrimonio, avuto un comportamento non conforme alle regole matrimoniali.

Uno di questi comportamenti, sicuramente il più comune, è l’adulterio.

In prima battuta si potrebbe pensare che l’addebito va  sempre riconosciuto in tutte quelle ipotesi in cui, l’altro coniuge, ha intrapreso una relazione extra-matrimoniale; ma non è sempre così.
Infatti, anche di recente, la Giurisprudenza di merito è intervenuta chiarendo alcuni importanti principi.

Prima di arrivare al punto, però, è utile capire quali siano i presupposti e le conseguenze:

Il principale presupposto è certamente la violazione degli obblighi matrimoniali.

E’ quindi necessario che il coniuge abbia tenuto un comportamento contrario a quei doveri sanciti dall’art 143 comma 2 c.c.

  • obbligo di reciproca fedeltà
  • obbligo di assistenza
  • obbligo di collaborazione
  • obbligo di coabitazione

Accertati i presupposti, è bene soffermarsi brevemente sulle conseguenze, non poco rilevanti, che comportano l’addebito.

Prima fra tutte, va annoverata l’impossibilità ad ottenere l’assegno di mantenimento, come pure ai fini successori, la perdita di tutti quei diritti che invece spetterebbero al coniuge non separato.
Va però ricordato che, anche se l’addebito viene considerato a tutti gli effetti una “sanzione”, l’ex coniuge non perde comunque il diritto, qualora ne ricorrano i presupposti (stato di bisogno), all’assegno alimentare.

Cosa accade, quindi, nelle ipotesi in cui l’obbligo di fedeltà viene meno e uno dei coniugi chiede l’addebito della separazione?

Come accennato, la Corte di Cassazione è di recente intervenuta con la Sentenza n. 1816/2021.

La domanda che ci si deve porre, quindi, è se l’infedeltà possa essere di per se sufficiente a realizzare quella condizione affinché Giudice possa concedere l’addebito.

La risposta, non è poi così scontata: infatti, la giurisprudenza è ormai unanime nell’affermare che la violazione del dovere coniugale deve essere quell’elemento che ha determinato la crisi coniugale.

In parole povere, nei casi di adulterio, affinché sia riconosciuto l’addebito l’ex coniuge deve provare che la relazione extraconiugale è stata la causa primaria della crisi matrimoniale.

Quindi se l’altra parte riesce a dimostrare che, indipendentemente dalla relazione infedele, il matrimonio era già vacillante per altri motivi, il giudice non può riconoscere alcun addebito.

La sentenza richiamata non fa altro che ribadire il principio ormai consolidato, secondo il quale in un matrimonio già compromesso l’infedeltà, seppur comportamento qualificato come grave, non incide sulla fine del vincolo matrimoniale ma ne è una mera conseguenza.

In conclusione, se si ha l’intenzione di presentare un ricorso con richiesta di addebito al coniuge infedele,  sarà  particolarmente importante e decisivo poter dimostrare che il tradimento è alla base della rottura del rapporto coniugale.

E’ possibile ottenere un risarcimento per gli eventuali danni subiti?

Il tradimento, normalmente, ingenera nel coniuge che lo subisce uno stato di patimento psicologico dovuto principalmente alla delusione sofferta nonché a tutta una serie di fattori che si ritrovano nel menage familiare.

Il risarcimento dei danni, però, non può essere sempre richiesto: la giurisprudenza, infatti, ha da tempo introdotto il criterio della “normale tollerabilità”. In sostanza, il tradimento deve tradursi in una lesione alla salute, all’onore o alla dignità del partner.

Per capire meglio quanto detto, possono essere di aiuto alcuni esempi concreti:

  • il tradimento in pubblico
  • il tradimento effettuato con modalità umilianti per l’altra persona
  • quando ci si vanti del tradimento sui social network

In conclusione, in queste ipotesi è sicuramente riconosciuto un risarcimento del danno in capo all’ex partner che, in forza delle modalità con cui ha subito il tradimento, ha subito un forte pregiudizio.

Nei casi “normali”, quando le modalità del tradimento non incidono in maniera significante, non sarà possibile, invece,  ottenere alcun risarcimento.

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Notifica multa oltre 90 giorni: quando va annullata

Autovelox notifica multa oltre 90 giorni va annullata

Importante decisione del Giudice di pace di Ivrea, secondo il quale, nelle ipotesi di mancata immediata contestazione, la multa va annullata se la notifica del verbale avviene oltre il novantesimo giorno dall’accertamento.

La vicenda trae origine da un ricorso avverso sanzione amministrativa, presentato da un’automobilista multata per violazione dell’art 146 codice della strada perché sorpresa con l’autovelox oltre il limite di velocità.

Nello specifico, la ricorrente lamentava tra gli altri motivi di annullamento del verbale, anche ‘intervenuta prescrizione del termine di notifica.

Multa e notifica del verbale di accertamento: normativa e giurisprudenza di riferimento

Va chiarito che l’art 201 codice della strada stabilisce che, nelle ipotesi in cui la contestazione dell’infrazione non può avvenire immediatamente, il verbale con gli estremi precisi e dettagliati della violazione, va notificato al trasgressore entro 90 giorni dalla data della commessa infrazione.

Ipotesi questa derogabile nel caso in cui non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile.

Tale principio viene anche dalla Suprema Corte che, nell’ordinanza n. 7066/2018, ha ribadito che, “qualora sia impossibile procedere alla contestazione immediata, il verbale deve essere notificato al trasgressore entro il termine fissato dall’art. 201 C.d.S. (novanta giorni, a seguito della modifica apportata con l’art. 36 della legge n. 120/2010), salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’ultima parte del citato art. 201, e cioè che non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile”.

Il caso di specie e la soluzione

L’opponente ha eccepito, tra i vari motivi, anche la tardività della notifica del verbale, avvenuta oltre il termine di 90 giorni previsto dalla norma.

In realtà, la notifica è avvenuta oltre detto termine, per una serie di eventi non imputabili all’Amministrazione.

Come si legge nella sentenza, l’amministrazione ha provveduto all’invio del plico, entro i termini, al corretto indirizzo.

Poste Italiane, non consegnava l’atto all’indirizzo indicato e perciò  lo rispediva al Comune.

Il Comune, ricevuto il plico, ha provveduto a rinotificarlo ma oltre il termine di 90 giorni.

Pertanto il giudice di pace di Ivrea ha annullato il verbale e compensato le spese

Per un ulteriore  approfondimento si allega il testo integrale della sentenza del 4/11/2020 del Giudice di Pace di Ivrea

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Indennità di maternità: deve garantire lo stesso tenore di vita alla lavoratrice.

indennità di maternità tenore di vita

Con una recente Sentenza, la Corte di Cassazione, ha stabilito che il criterio da applicarsi per il calcolo della indennità di maternità deve essere parametrato, ex art 23 Dlgs 151/2001, all’ultima retribuzione  percepita , così da garantire alla lavoratrice il medesimo tenore di vita.

La vicenda

Una donna, dipendente di una compagnia aerea con mansione di assistente di volo,  conveniva in giudizio l’INAIL al fine di veder riconosciuto, a titolo di indennità di maternità, un importo parametrato all’ ultima retribuzione percepita. 

La dipendente usufruiva del congedo di maternità nel periodo 15/05/2007 – 15/07/2008, ma a suo dire l’istituto calcolava l’indennità, non sulla base della retribuzione globale, ma sulla retribuzione assoggettata a prelievo contributivo e fiscale.

L’Ente, infatti, considerava quale parametro applicativo l’indennità di volo fissa e variabile erogando, così, il 50% della retribuzione.

Il tribunale,  accoglieva le doglianze della lavoratrice e condannava l’Istituto al pagamento della indennità secondo il parametro corretto.

La Corte d’Appello confermava le statuizioni di primo grado.

L’INAIL, ricorreva così per Cassazione lamentando l’errata interpretazione operata dai giudici di primo e secondo grado.

Soluzione adottata dalla Corte di Cassazione

La Corte, ricordando un suo precedente orientamento (Sent. n. 11414 / 2018), ribadisce che l’art 22 D.lgs 151/2001 disciplina il trattamento economico e normativo del congedo di maternità, pari all’80 % della retribuzione.

Il trattamento, va poi corrisposto con le stesse modalità e criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie.

L’indennità di malattia gode, infatti, di una autonoma disciplina  sia per quanto riguarda l’interesse tutelato, che i soggetti beneficiari, che il tipo di prestazioni garantite.

La disciplina del calcolo del trattamento economico, si rinviene nell’art 23: il parametro corretto per determinare l’indennità è la “retribuzione media globale giornaliera (ottenuta dividendo per 30 l’importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel quale ha avuto inizio il congedo).

L’indennità di maternità da corrispondere sarà così pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera.

Nella medesima pronuncia, la Suprema Corte di Cassazione ha anche ricordato che l’art 23 Dlgs 151/2001, di concerto con gli artt 30 31 e 37 Cost., garantisce il criterio di “maggior mantenimento possibile”, a differenza dei criterio dell’indennità di malattia che, invece, comporta un’attribuzione solamente parziale di alcune voci retributive.

In sostanza, il criterio dell’art 23,ha introdotto una maggior tutela per la lavoratrice che, potendone usufruire, ha diritto a più elevato livello di retribuzione.

Per ogni ulteriore approfondimento si rimanda alla Sentenza n. 20673/2020 depositata il 29.09.2020

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sinistro stradale per insidia

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Sinistro stradale per insidia del manto stradale: risarcimento dei danni.

A volte può capitare, mentre si è a alla guida della propria auto o scooter, di rimanere coinvolti in un sinistro stradale, in conseguenza di una insidia nascosta della strada che stiamo percorrendo. In tutti questi casi, è possibile richiedere un risarcimento dei danni direttamente all’Ente gestore della strada, ma vediamo come con un esempio concreto:

La vicenda trae origine da un ricorso presentato al Giudice di Pace di Perugia dai genitori di un minore coinvolto in un sinistro stradale che convenivano in giudizio la Provincia di Perugia, chiedendo il risarcimento dei danni, poiché il figlio a bordo del proprio ciclomotore, cadeva a terra, riportando danni fisici. a causa di una insidia del manto stradale  «una voragine esistente nel manto stradale», .

Il GDP, riconosceva la responsabilità dell’Ente e quindi lo condannava al risarcimento dei danni. Avverso la pronuncia favorevole per il centauro, proponeva appello la Provincia di Perugia.

Il Tribunale, accogliendo le doglianze di appello, rigettava la domanda originariamente proposta dai genitori del danneggiato.

Ovviamente contro tale decisione, i genitori decidevano di proporre ricorso per Cassazione, sulla scorta di alcune importanti motivazioni:

  1. il giudice dell’Appello aveva rigettato la  domanda affermando che la cosa in custodia non presentava intrinseche connotazioni di concreta pericolosità, non indicando però quali altre cause avevano generato il sinistro;
  2. il giudice di appello aveva posto l’onera della prova in capo al danneggiato;
  3.  il giudice di appello non aveva correttamente considerato alcune importanti dichiarazioni rese dal testimone dipendente della Provincia.

La Corte di Cassazione, ha ritenuto fondati i motivi del ricorso presentato e quindi ha avuto modo di chiarire quanto segue:

Secondo l’art 14 C.d.s. , gli enti proprietari delle strade (e delle autostrade) sono tenuti a provvedere

  • alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi;
  • al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze;
  • all’apposizione e manutenzione della segnaletica prescritta.

Per la Corte, inoltre, in caso di sinistro stradale per insidia, il danneggiato per ottenere il risarcimento dei danni, è tenuto a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa in custodia.

In parole povere, è necessario dimostrare che l’evento che ha comportato il danno, è una diretta conseguenza della cosa in custodia.

Come si fa a dimostrare?

Entra qui in gioco l’art 2051 c.c. che integra una ipotesi di responsabilità c.d. aggravata, caratterizzata dal criterio dell’inversione dell’onere della prova.

Quindi, per esonerare il custode dalla responsabilità, questo dovrà dimostrare che l’evento/danno sia conseguenza del caso fortuito.

Ma quando può configurarsi il caso fortuito?

Nel caso di specie, come in quelli analoghi, il caso fortuito si concretizza quando l’evento danno, si è verificato prima che l’Ente proprietario o gestore delle strade, nonostante l’attività di controllo espletata con la dovuta diligenza, non abbia potuto rimuovere la situazione di pericolo determinatasi in concreto;

In sostanza, l’ente avrà il compito di dimostrare di aver posto in essere tutti le normali attività di controllo e manutenzione sulle strade ma che, nonostante tutto, il sinistro e il danno non potevano essere in alcun modo evitati.

Ne segue che, in queste ipotesi, chi subisce un danno come conseguenza di un sinistro, non deve provare l’esistenza dell’insidia, del trabocchetto e quindi dell’anomalia del manto stradale.

Spetterà perciò al  proprietario delle strade pubbliche dare la prova liberatoria, dimostrando di avere adottato tutte le misure idonee a “prevenire ed impedire che il bene demaniale presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto.

Per ulteriore approfondimento ecco in allegato la recente pronuncia della Cassazione civile ordinanza n.11096/2020

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Ripartizione spese condominiali balconi e ringhiere

condominio ripartizione spese balconi e ringhiere

La Corte si è recentemente espressa in materia di condominio stabilendo il criterio di ripartizione delle spese per la riparazione dei balconi e delle ringhiere.

In questo caso le diatribe condominiali hanno investito la corte di una problematica piuttosto frequente: la ripartizione dei costi per la sostituzione delle ringhiere e dei divisori dei balconi.

Molte volte, erroneamente, si ritiene necessario doversi accollare tutti i costi della sostituzione delle ringhiere ma, in alcune ipotesi, non è così.

La stessa Corte in passato si è occupata dell’argomento, facendo una netta distinzione tra balconi e ringhiere.

I balconi non rientrano tra le parti comuni: non si ritengono necessari per l’esistenza del palazzo né destinati all’uso o al servizio dello stesso.

I rivestimenti dei balconi, come per l’appunto le ringhiere, invece, devono essere considerati beni comuni.

Secondo la Corte i balconi, a differenza delle ringhiere, non sono considerati quali elementi essenziali del palazzo. Sono invece di uso esclusivo del proprietario dell’appartamento.

D’altro canto, nell’ipotesi in cui sia prevista l’esistenza dei balconi, le ringhiere e i divisori, divengono un elemento essenziale per il decoro e l’ornamento dell’edificio. Di conseguenza assolvono ad una funzione estetica indispensabile.

Ne segue che, considerata la loro natura ornamentale, qualora debba intervenirsi alla loro sostituzione e/o riparazione, i costi devono essere ripartiti tra tutti i condomini.

Requisito è che le ringhiere siano “ben visibili all’esterno, disposte simmetricamente, omogenee per dimensione  forma geometrica e materiale” così da poter assolvere la funzione  di rendere l’edificio esteticamente gradevole.

Questo è quanto ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione nella recentissima Ordinanza n. 10848/2020, che per ogni approfondimento si allega.

Quindi rima di affrontare la riparazione o la sostituzione di balconi e ringhiere, è bene tenere a mente che i costi potranno essere divisi tra i vari condomini.

Separazione giudiziale: addebito in caso di  allontanamento dalla casa familiare

corte di cassazione

Per la Cassazione nella separazione personale, l’allontanamento di uno dei coniugi dalla casa familiare, anche se per poco tempo, può determinare l’addebito

La vicenda trae origine da una Sentenza del Tribunale di Sassari che, in un procedimento per separazione personale dei coniugi,  ha pronunciato l’addebito nei confronti della moglie per essersi allontanata dalla casa familiare.

La donna, per il giudice di prime cure, non aveva dimostrato che nei suoi confronti vi erano state delle minacce, pressioni o violenze da parte del marito tali da obbligarla ad allontanarsi dalla casa familiare.

La stessa, appena 2 giorni dopo, tentava di rientrare nell’abitazione ma il marito aveva nel mentre provveduto alla sostituzione della serratura. La donna impossibilitata, non aveva altra via se non quella di andare a vivere nell’abitazione della madre, seguita da uno dei figli.

L’APPELLO

Avverso detta pronuncia veniva proposto appello alla Corte di Appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari che confermava la decisione di primo grado. In sostanza rilevava come l’altro figlio, nel frattempo divenuto maggiorenne, si era anch’esso stabilito nello stabile dove abitava la madre con l’altro figlio più piccolo.

Tale circostanza, ad avviso della Corte, valeva ad escludere i presupposti sia per l’assegnazione della casa familiare alla donna, sia l’accoglimento della domanda di assegno per il mantenimento del figlio convivente.

Sulla la domanda di addebito, la Corte ha chiarito che dall’istruttoria non è emerso alcun dato circa il fatto che il marito avesse adottato un comportamento che atto a giustificare l’allontanamento dalla casa familiare della donna.

All’esito la donna proponeva Ricorso per Cassazione articolando 3 motivi:

  • la corte d’Appello non aveva valutato un fatto decisivo quale il tentativo di rientro nella residenza familiare impedito dal cambio serratura
  • sussistenza di una crisi coniugale da tempo in atto e pregressa al suo allontanamento
  • violazione e/o falsa applicazione art 151 comma 2

La donna sosteneva, infatti, che la  richiesta di addebito proposta dal marito sul presupposto di una infedeltà coniugale, non risultava ancorata ad alcun elemento fattuale concreto ma solo su semplici asserzioni. Circostanza questa che secondo la tesi della difesa, sottolineava una scarsa rilevanza dell’abbandono del domicilio familiare .

LA DECISIONE

Secondo gli Ermellini, il ricorso è inammissibile.

L’omesso esame del tentativo di rientro nella casa famigliare e e la preesistenza di una crisi tra i coniugi, non è rispondente ai requisiti previsti ex art 360 comma 1 n. 5 c.p.c.

Ancora, secondo la Corte, i giudici di merito avrebbero preso in esame il comportamento globale dei coniugi.

Veniva confermato il carattere unilaterale e non temporaneo della decisione della donna di abbandonare la casa familiare tale da porre fine alla relazione tra i due.

Testo integrale della sentenza: Cassazione Ordinanza 2 luglio 2019 – 14 gennaio 2020, n. 509

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La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, è tornata ad occuparsi del termine di prescrizione delle cartelle esattoriali, ma in questo caso quelle relative a crediti previdenziali Inps e Inail.

Argomento molto dibattuto negli ultimi anni che, a oggi, sembra aver trovato una svolta. Infatti è proprio la Corte che, tornando sul tema, con l’ordinanza n. 31010/2019 ha definitivamente superato l’orientamento secondo cui il termine di prescrizione andava ricercato nell’art 2953 c.c..

La vicenda nasce da una impugnazione presentata dall’Inps alla Corte d’appello di Ancona avverso una sentenza di primo grado che aveva accolto l’opposizione di una socia di una S.a.s. a una cartella esattoriale. Opposizione fondata sul presupposto che tra il momento della notifica del verbale di accertamento e quello della cartella di pagamento, erano trascorsi ormai 10 anni.

La corte d’Appello respingeva così il ricorso dell’Inps che ricorreva per Cassazione lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art 1 comma 9 e 10 l. n. 335/95 in relazione all’art 2953 c.c.

La Corte di Cassazione ha respinto però il ricorso dell’Ente riprendendo un orientamento ormai dalla stessa consolidato: si chiarisce nell’Ordinanza in commento come soltanto un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata. Pertanto solo il giudicato può spiegare il suo effetto in ogni altro giudizio tra le medesime parti, rendendo inoppugnabile il diritto in esso consacrato.

A tal proposito è necessario ricordare che la cartella di pagamento, ha natura di  atto amministrativo e quindi non può mai acquisire efficacia di giudicato.

Il principio fa si che, se nell’arco di 5 anni dalla notifica della cartella non si procede a riscossione o non vine comunque notificato un atto interruttivo (qualunque esso sia), il credito è prescritto. In questi casi uno strumento idoneo a far valere l’intervenuta prescrizione è anche l’opposizione di cui all’art 615 c.p.c.

In sostanza il termine di prescrizione di 10 anni di cui all’art 2953 c.c., opera solo nella ipotesi in cui sia intervenuto un titolo giudiziale divenuto definitivo e non anche in quelle ipotesi in cui si parla di atto amministrativo come, per l’appunto,  la cartella di pagamento.